venerdì 5 luglio 2013

Un post alto come un albero e piccolo come una cicala


Anselm Kiefer, De l'Allemagne, particolare, 1982-2013

über der grauschwarzen Ödnis,
Ein baum-
hoher Gedanke,
greift sich den Lichtton: es sind
noch Lieder zu singen jenseits
der Menschen.

Paul Celan, Fadensonnen, 1967

sulla desolazione grigionera,
un pensiero alto
come un albero afferra il suono della luce:
dei canti sono ancora da intonare al di là
dell'umanità.

Kiefer in parte dilata, in parte spezza Soli-filamenti, con la presenza dell'albero, con la sua interposizione in mezzo a jenseits, che a lungo ho pensato di rendere con un ol     tre, per poi rinunciarvi, non sapendo come inserire un tronco tra due sillabe. Va immaginato a grandezza naturale, il quadro, e allo stesso modo quindi anche la citazione di Celan, che ha molteplici significati metaforici*, ma esattamente questa dimensione, nella riproduzione di Kiefer.
Es sind noch Lieder, dice Celan, non es gibt noch Lieder. Parrebbe quindi che i canti esistano solo temporaneamente, ora, in questo frangente, nel presente di chi lo legge, come se bussassero alla porta (es ist jemand an der Tür), canti distinguibili, ma di passaggio o concentrati in poco tempo, come quelli delle cicale nelle ore estive più calde.

Denn die Zikaden waren einmal Menschen. Sie hörten auf zu essen, zu trinken und zu lieben, um immerfort singen zu können. Auf der Flucht in den Gesang wurden sie dürrer und kleiner, und nun singen sie, an ihre Sehnsucht verloren - verzaubert, aber auch verdammt, weil ihre Stimmen unmenschlich geworden sind.

Ingeborg Bachmann, die Zikaden, 1955

Perché le cicale una volta erano esseri umani. Smisero di mangiare, di bere e di amare, per poter cantare tutto il tempo. Rifugiandosi nel canto, si rinsecchirono e si rimpicciolirono, e ora cantano, perse dietro il loro desiderio febbrile - incantate, ma anche dannate, perché le loro voci nel frattempo sono diventate non umane.

*Menschen è forse più specifico di uomini, potrebbe essere limitato agli ebrei; noch può essere generale, nel senso che vi sono sempre canti da intonare, dopo ogni desolazione, oppure può essere un 'vi sono ancora canti' rapportato ad altri canti, incongrui, quelli diffusi nei campi di sterminio; l'enunciato finale, ancora una volta contrassegnato da Kiefer con l'ausilio del tronco, che vi crea una cesura, rispetto ai versi precedenti, ancora più marcata dei due punti, può essere un invito o può piuttosto volgere al sentenzioso, ecc. ecc., con un risultato che oscilla tra la fuga dalla realtà e l'adesione ad una realtà altra. Con l'associazione alle cicale, al loro canto al prezzo della perdita dell'umanità, mi rendo conto ora, i canti al di là degli uomini non sono più né una fuga né una liberazione, ma una dannazione, tuttavia, la tentazione di intrecciare e di vagare tra l'umano, l'ultraumano, il non umano e il disumano, tra il tono e il timbro del grigionero e quelli della luce, era troppo forte. Chiudo come faceva sempre quel furbone di Dante in questi casi: e comunque, le stelle.

3 commenti:

  1. Cara Francesca, è sempre un piacere leggerti. Oltre ad essere un'acuta filologa, hai dentro di te tanta poesia, con un pizzico d'ironia che non guasta mai!

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  2. Entrare qui è come fare un tuffo nell'acqua fresca dopo una lunga camminata sotto un sole rovente.

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  3. Ognuno a suo modo, ma siete entrambi matti.

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